Virginia di Bari
Una delle prime cose che i bambini imparano a disegnare è la casa. Casa come insieme di forme: un quadrato come base, un triangolo come tetto, un rettangolo come porta. Si tratta di un vocabolario elementare, essenziale dove pochi e semplici elementi geometrici sono sufficienti per costruire un’immagine. Lo sa bene anche Peter Halley (New York, 1953), figura chiave del neo-concettualismo e neo-minimalismo americano del secolo scorso, che ha fatto della geometria visiva la cifra della sua espressione artistica. La sua opera è il tentativo riuscito di trascendere la mera forma. Superando così il minimalismo, che rivendicava la non-oggettualità delle forme e la loro non relazione con il mondo esterno, Halley affida all’immagine un referente. Nelle sue opere iconiche sulle prigioni Prison & Cell, l’artista newyorkese esplora la ripetizione, la composizione e l’evoluzione delle forme geometriche. Riflettendo con queste, e interpretandole come spazi del pensiero, evoca attraverso di esse altre forme e strutture: quelle coercitive di controllo sociale, ossia celle e carceri. Instaura così una relazione tra la geometria astratta, l’astrazione geometrica e il mondo in cui viviamo, e connette noi «esseri senza confini che vivono di confini» alla condizione di isolamento propria delle nostre stesse esistenze.
Da una parte infatti, adoperando tale linguaggio costituito da forme ripetitive, ci mostra come la geometria per prima sia fatta di forme finite e determinate, e appaia così come uno spazio di costrizione che limita le nostre possibilità espressive. «Lavorando a questo progetto per un paio d’anni» – afferma l’artista in un’intervista con Giancarlo Politi nel 1990 – «cominciai a sentirlo come un modo piuttosto sintetico per esprimere lo spazio della nostra cultura». Ma dall’altra vi è un superamento di questo, e un’apertura a campi di possibilità inediti. «Avendo cominciato a guardare alla geometria in termini di restrizione o segmentazione, il passo successivo è stato il controllo del movimento in questo spazio e i modelli di connessione che esistevano tra questi spazi isolati». Allo stesso modo allora in cui i bambini, dopo aver imparato a tracciare la struttura base della casa, aggiungono pian piano nuovi elementi, come finestre e camini, Halley nella sua evoluzione artistica inserisce fili, condotti, ciminiere. Immagina quindi connessioni, ponti di linee a formare altrettanti incroci, e collegando i quadrati tra loro trasforma le sue Prison & Cell in Prison & Cell with Smokestack & Conduit.
Il lavoro di Halley ci costringe in questo modo non solo a fissare dei muri, ma ad allenare lo sguardo per intravedere gli spazi e le fessure che si aprono tra i quadrati, nel mezzo, come vie di fuga o di evasione. Ci invita a osservare lo Zwischenraum, lo spazio compreso tra quelle prigioni colorate. Ciascuna con la propria atmosfera, porta con sé la possibilità di essere vissuta in modo unico e diverso, illuminando così un piccolo spazio di libertà. E di espressione.
«Lo spazio che mi interessa è lo spazio umano, lo spazio che gli esseri umani si costruiscono». Anche se troppo spesso ci dimentichiamo di considerarlo tale, Halley sembra ricordarci metaforicamente che spazio umano è allora anche quello ristretto, di quel nome comune: casa. Lo spazio delle case circondariali e delle case di reclusione.
Riferimenti bibliografici
A. Del Puppo, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento, Torino 2013.
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 2014.
P. Halley: Paintings of the 1980s The Catalogue Raisonne, catalogo della mostra, Ginevra 2019.
Giancarlo Politi (intervista di), Peter Halley, Flash Art, N. 150, January – February 1990.
G. Simmel, Ponte e porta. Saggi di estetica, Bologna 2011.